Paesaggio olivicolo. Ne parliamo con il prof. Mauro Agnoletti

Il Protagonista  08 Luglio 2016



Mauro Agnoletti è professore associato presso il Dipartimento di Gestione dei Sistemi Agricoli Alimentari e Forestali (GESAAF) dell’Università di Firenze. Tiene i corsi di Processi produttivi e pianificazione del paesaggio, Pianificazione dei sistemi agricoli e Forestali, Storia ambientale. E’ coordinatore del gruppo di lavoro sul paesaggio presso il Ministero dell’Agricoltura e esperto scientifico del Consiglio d’Europa, FAO, UNESCO, IUFRO, CBD.

Professore, parliamo di paesaggio e in particolare di paesaggio olivicolo, cominciando con fornire qualche numero che ci dà il senso di quanta superficie occupano gli olivi in Italia…

Nel nostro Paese si stimano più di 500 varietà (cultivar) e si contano circa 250 milioni di piante (oliveti italiani), molte delle quali secolari.

Lei sostiene che oggi la principale minaccia al paesaggio non è l’urbanizzazione ma l’abbandono. Perché?

Le trasformazioni del paesaggio vanno guardate nel lungo periodo. Mentre negli ultimi decenni si registra un aumento più forte del passato dell’urbanizzazione, ma soprattutto intorno alle città,  nel lungo periodo l’abbandono appare molto superiore in termini di superfici, anche se meno impattante dal punto di vista ambientale, interessando colline e montagne che sono il 75% del nostro paesaggio. Dagli anni ’30  ad oggi, abbiamo perso circa 11.000.000 ha di terreni agricoli, quasi la metà del totale coltivato al tempo, con una perdita media di 125.000 ha all’anno. Al contrario, dal 1990 al 2006, l’urbanizzazione è avanzata di 8.200 ha all’anno. Secondo l’ISTAT fra il 2001 e il 2011 invece, l’abbandono è passato dal 28,5 al 36,1%, mentre l’urbanizzazione dal 20 al  22%.

Quali misure di contrasto all’abbandono è possibile adottare? E che ruolo hanno i produttori di olio in questa partita?

Innanzitutto liberalizzare il recupero dei terreni abbandonati e poi sostenere con le misure dei PSR il ripristino delle attività agricole. Le modifiche della legge forestale 227 del 2001, apportate nel 2012 consentono questo, ma spesso Corpo Forestale dello Stato e Soprintendenze tendono ad ignorare tali modifiche. I produttori devono richiedere che il recupero dei terreni abbandonati sia autorizzato senza troppa burocrazia, che le misure dei PSR lo sostengano e soprattutto che le produzioni locali ed i paesaggi olivicoli tradizionali siano preferiti nelle misure dei PSR e nelle strategie economiche.

Conservazione e varietà del paesaggio da un lato, innovazione produttiva e redditività economica dall’altro, in che modo possono convivere?

Conservazione e innovazione non sono in opposizione. Non c’è conservazione senza la produzione di nuovi valori e, ugualmente, ogni autentica innovazione comporta l’arricchimento continuo del patrimonio di valori lentamente sedimentato nel passato. Il paesaggio costituisce un valore aggiunto che consente di collocare sul mercato prodotti che hanno il pregio di associare la qualità alimentare alla salvaguardia di valori storici, culturali ed ambientali, rispetto a tendenza di mercato volte a favorire quantità e bassi costi di produzione, ma anche scarsa qualità.  L’italia non può competere su produzione e costi, ma può farlo sulla qualità,  se però include anche il paesaggio in questo concetto e quindi il turismo.  

Come sta cambiando il paesaggio? Se non corriamo ai ripari, rischiamo di perdere le specificità/biodiversità dei nostri territori che ne rappresentano l’identità?

Da un lato abbiamo i processi di abbandono prima ricordati ma dall’altro anche tendenze  all’industrializzazione dell’agricoltura, che non portano ne qualità ne competitività. Il nostro paesaggio ha una biodiversità di tipo bioculturale, come già affermato dall’UNESCO e dalla Convenzione della Nazioni Unite per la Diversità Biologica. Questa rappresenta una peculiarità del nostro Paese che integra la cultura con l’ambiente,  proponendo un modello anche per altri Paesi del mondo.

Lei parla spesso di “globalizzazione ambientale”. Cosa intende? 

Così come la globalizzazione economica ha uniformato i mercati, ma  anche il pensiero in materia di economica, lasciando poco spazio alle alternative e alla diversità di approcci, la globalizzazione ambientale ha proposto un pensiero unico in materia di ambiente, indicando una ricetta uguale per tutti i Paesi. La rinaturalizzazione e il ritorno a modelli di biodiversità tipici di ambienti naturali caratterizzati da scarsa presenza umana, sono il prodotto di visioni proposte dai Paesi del nord Europa e soprattutto dal nord America. Tali visioni non si adattano a un Paese come il nostro in cui l’uomo ha modellato la base naturale fino dal periodo Etrusco, ed in cui abbiamo 205 abitanti per kmq che non possono nè convivere con una troppo numerose fauna animale, nè nutrirsi senza sufficiente terra da coltivare.  Di fatto oggi si assiste ad una alleanza, non scritta,  fra una civiltà urbana superficialmente ambientalista, ma inconsapevole della storia del nostro paesaggio e della difficoltà di coltivare la terra, ma pronta a ipernutririsi e a considerare positivo il ritorno della natura, e una industria agroalimentare che favorisce l’abbandono delle produzioni locali, importando cibo dall’estero. Nella sostanza, ambedue favoriscono abbandono, urbanizzazione ed industrializzazione.

Entriamo nel merito di un progetto che la vede in prima linea. Mi riferisco al Registro nazionale dei paesaggi rurali storici, uno strumento voluto dal Ministero delle Politiche Agricole, con quale scopo? E a che punto siamo ora?

Lo scopo del Registro era soprattutto di far capire quali fossero le vere caratteristiche del paesaggio rurale italiano e invitare a prendersene cura, dato che ad oggi, anche gli strumenti di tutela esistenti se ne sono o disinteressati, o hanno favorito l’abbandono. Si trattava poi di valorizzare il rapporto fra i paesaggi tradizionali e le produzioni tipiche, indicando un nuovo modello di qualità integrale che tenga insieme paesaggio e prodotto. Lo scopo era anche di proporre strumenti alternativi all’Unesco per dare visibilità ad un patrimonio molto più vasto di quanto questi organismi possano accogliere nei loro programmi. La situazione attuale, dopo un periodo di preparazione durato molti mesi e anche qualche dubbio sollevato da alcuni sull’interesse reale da parte dei territori, vede circa 60 richieste di iscrizione e almeno altrettante manifestazioni di interesse, a fronte di 3 paesaggi storici già iscritti ufficialmente. Si tratta di un grande successo.

L’Associazione Città dell’Olio ha lanciato una campagna nazionale con lo scopo di sostenere la candidatura dei paesaggi olivicoli al Registro nazionale dei paesaggi rurali storici. Inoltre si sta impegnando da anni per il riconoscimento FAO e Unesco del patrimonio olivicolo italiano come Patrimonio dell’Umanità. Questo tipo di iniziative possono servire? 

Il Registro rappresenta anche l’anticamera per le iscrizioni al patrimonio UNESCO e al programma della FAO, dato che i paesaggi rurali candidabili passano tutti dal Ministero Agricoltura. In particolare, il programma FAO intende dare maggiore visibilità ai valori legati all’agricoltura, alle comunità locali, ed ai prodotti alimentari associati al paesaggio.  L’Associazione nazionale Città dell’Olio sta svolgendo  un ruolo fondamentale per la promozione dei valori legati al paesaggio olivicolo italiano anche in prospettiva internazionale e spero anche per reindirizzare le politiche agricole verso un diverso concetto di qualità del territorio rurale e dei prodotti agroalimentari.