Quegli uliveti Anti-sismici

Il Punto  03 Ottobre 2016



C’è dolore per le vittime, c’è desolazione per i borghi cancellati, ma c’è anche il bisogno di comprendere. Si è detto: incuria. Si è aggiunto: case vecchie. Si è commentato: serve un piano antisismico. Difficile allontanare il fastidio del senno di poi. Una considerazione conviene farla ormai a quasi due mesi dal sisma che il 24 agosto ha devastato il cuore geografico dell’Italia. Ed è quella che ci suggerisce l’aver letto e ascoltato molto, ma non una parola sull’abbandono della nostra montagna, sulla marginalità in cui è tenuto il contesto rurale come se l’Italia fosse fatta solo di alcune aree metropolitane. In Appennino vive ancora oltre il 20% della popolazione del Paese, dall’Appennino proviene una buona parte del pil agricolo e soprattutto in Appennino si custodisce due terzi della biodiversità italiana che è come dire metà di quella europea. In Appenino infine è allocato il 40% del nostro patrimonio storico-architettonico e quasi tutte le aree protette del Paese sono tra quelle montagne. Il terremoto sinistramente potrebbe leggersi come una fatale vendetta dell’Appennino per l’oblio in cui è caduto e in cui è tenuto. Si dirà: ma è considerazione che vale davanti agli smottamenti, ai nubifragi, alle frane, agli incendi perché che cosa si può fare contro il terremoto evento terribile quanto imprevedibile? Si può fare prevenzione. Ma la prevenzione è diretta conseguenza della centralità che si assegna a un territorio (inteso come contenitore geoantropico), al suo peso economico, culturale ed identitario. Qui sta il senso della vendetta. L’Italia da decenni non si occupa del suo paesaggio e negli ultimi anni lo tsunami della crisi economica ha travolto ogni attenzione programmatoria rispetto ai territori rurali. Pare che il pensiero calcolante abbia riportato la sua triste vittoria imponendo anche in agricoltura un’idea quantitativa del produrre. E’ del tutto evidente che se si ha questa concezione le aree di alta collina vengono immediatamente marginalizzate. E con esse vengono marginalizzate le comunità e chi opera in quei contesti.

E’ giunto il momento che si ponga con forza la questione della diversità – positiva –  dell’agricoltura italiana. L’ Associazione Nazionale Città dell’Olio da sempre porta avanti la necessità della tutela e della promozione del paesaggio olivetato capace di far percepire il valore culturale ed antropologico della coltivazione dell’ulivo. Questa azione non è affatto una mera operazione di “museificazione” del paesaggio: essa ha decisive ricadute sul prodotto, costituisce un paradigma per l’ottimizzazione economica del settore olivicolo e pone l’accento sul valore complessivo, ma anche sulla corretta gestione della ruralità. In questo senso parliamo di uliveti anti-sismici. La coltivazione dell’ulivo richiede una presenza antropica sul territorio, impone una gestione corretta della risorsa naturale e pone il tema della rivitalizzazione delle comunità rurali. Ciò segnatamente nella fascia pede-appenninica e appenninica. Se il presidio dei territori si manifesta come rilancio delle comunità rurali è di tutta evidenza che servizi, infrastrutture, manutenzione e dunque anche riqualificazione del territorio, dei manufatti architettonici, del patrimonio storico-artistico oltreché del paesaggio e del contesto naturale divengono esigenze esiziali, non rinviabili e cura diuturna. Ma v’è di più: il rilancio dell’ ulivicoltura con la giusta valorizzazione del prodotto che è conseguenza della valorizzazione dell’unicità dei territori consente la creazione di marginalità di profitto che validamente possono essere investite nella tutela e riqualificazione del territorio con in più il vantaggio d’incrementare l’attività di custodia dei territori medesimi da parte degli ulivicoltori e l’enorme vantaggio di non disperdere i valori antropico-culturali delle comunità, generando anche per le amministrazioni pubbliche il giusto ristoro della propria attività di gestione dei servizi e dei territori.

Ma questa visione ha senso se si aderisce a un paradigma di sviluppo economico sostenibile e soprattutto compatibile con la “storia” della nostra ulivicoltura. Ciò significa sottoporre a severa critica la tentazione di introdurre in Italia la coltivazione dell’ulivo iperintensiva che si porta dietro almeno tre conseguenze contrastanti con una visione di armonico sviluppo rurale. Queste conseguenze sono: deprivazione della biodiversità dacché solo pochissime delle cultivar autoctone sono adatte a quei sistemi di allevamento; perdita del paesaggio olivetato con conseguente devalorizzazione dei contesti rurali e dunque con ricaduta negativa sulla marginalità di valore aggiunto immateriale derivante dalla territorialità, ma anche dal sistema delle DOP con evidente impatto nel rapporto fiduciario col consumatore; polarizzazione e concentrazione della produzione con evidente ricaduta negativa sul senso di comunità e sull’attività di custodia del territorio rurale.

L’Associazione Nazionale Città dell’Olio ritiene invece che sia possibile, anzi doverosa, una diversa impostazione anche con un dibattito critico attorno al futuro dell’ulivicoltura italiana al di là del mero perimetro delle ricadute agronomiche e produttive, ma con una impostazione di approfondimento del valore socio-culturale dell’ulivicoltura medesima.  Siamo in presenza nella prossima campagna olearia di un’annunciata scarsità di raccolto. Ci sarà tempo e modo di approfondire anche questo aspetto a dati più certi, e tuttavia questa annunciata scarsità ripropone un tema: come aumentare la produzione e il valore della produzione. E’ di tutta evidenza che tanto più il mercato nazionale non è servito da prodotto italiano tanto più esso è permeabile da oli d’importazione che generano dumping sul prezzo, ma più ancora allontanano il consumatore dalla percezione del valore dell’extravergine. La risposta deve essere: recupero delle ulivete. L’incremento di produzione deve derivare dalla riattivazione delle coltivazioni nelle zone abbandonate, in quelle marginali con il triplice scopo di aumentare la produzione, restaurare il paesaggio olivetato, sostenere le comunità rurali mantenendo la diffusone della produzione di extravergine. Ciò pone un adeguamento sistemico del settore (dal ruolo dei frantoi, alla distribuzione del prodotto, dal marketing territoriale che integra quello del prodotto alla valorizzazione culturale della filiera dell’extravergine e dei suoi territori) e una riaffermazione della centralità dei territori dell’ulivo per generare sia una ricaduta di valore del prodotto (percezione da parte del consumatore di tutti i valori e dunque disponibilità a remunerare l’extravergine italiano), sia una intrapresa turistica nel terre dell’ulivo, sia una tutela culturale delle terre dell’ulivo. Tutti fronti sui quali massimamente si dispiegherà l’azione dell’Associazione Nazionale delle Città dell’Olio. Perché dove è ulivo è pace, è benessere, è luce e nutrimento!

Carlo Cambi
Giornalista e autore televisivo e radiofonico, è tra i conduttori della trasmissione La prova del cuoco (RAI 1) e ospite fisso alla trasmissione Uno mattina verde (RAI 1). Collabora con Libero come editorialista e scrive di economia, turismo ed enogastronomia con Quotidiano Nazionale.