L’Italia ha bisogno dell’olivicoltura e dei suoi preziosi oli

Il Punto  14 Luglio 2018



Hanno fatto seccare il pozzo ed ora ti vogliono far bere l’acqua da loro scelta. 

Nel caso dell’olio extravergine di oliva italiano si sono prima industriati a vedere come confondere il consumatore con una classificazione che, per far capire che è vero olio di oliva e che ha requisiti per essere classificato di qualità, bisogna aggiungere a “Olio”, la qualificazione aggiuntiva “extravergine di oliva”, visto che per “olio di oliva” s’intende il peggiore prodotto che si richiama all’estrazione dalle olive. 

Una classificazione che ha, però, permesso di fare le peggior schifezze e proporle al consumatore , soprattutto a quello che non aveva alcuna idea dell’olio e dell’olivo. 

Poi si sono adoperati a mettere politicamente in un angolo l’olivicoltura, la coltura arborea più importante e più diffusa, ed è così che, nel frattempo, la Spagna ha fatto il sorpasso sull’Italia a gran velocità, per poi distanziarla fino a diventare, da anni ormai, irraggiungibile.  

Hanno, solo di recente, approvato, ma dopo decenni di distrazione,  un piano olivicolo, facendo perdere, in mancanza di un rilancio di questa coltura (l’Italia, oggi, avrebbe bisogno dei 600mila ettari di oliveti che non ha), gran parte delle enormi e straordinarie opportunità che il mercato, già comincia ad offrire, e, che ancor più,  offrirà nei prossimi anni. Un piano olivicolo che, per ora, ha dato solo spazio agli impianti olivicoli super intensivi, voluti dalla industria spagnola e appauditi dall’accoppiata Unaprol – Coldiretti, cioè da un’associazione degli olivicoltori e dalla sua  organizzazione professionale agricola, la più numerosa, quella che, dal dopoguerra, ha fatto il bello e il cattivo tempo dell’agricoltura italiana . 

La promozione, in pratica, di quell’agricoltura industrializzata da parte di tutti quelli che dovrebbe difendere i nostri bravissimi coltivatori, sempre più preziosi e sempre meno, e la nostra agricoltura, fatta di piccole e medie aziende, poste, nella stragrande maggioranza dei casi, sulle colline.  Un processo, come quello delle politiche della Ue, funzionale solo alle multinazionali della meccanica, della chimica, dei semi e dei brevetti, che sta portando all’abbandono di vasti territori del nostro Paese e all’esodo di centinaia di migliaia di coltivatori. I nostri preziosi cultori della terra, sempre più tartassati dalla burocrazia e dai finanziamenti europei, con quest’ultimi che, nel tempo, sono diventati cambiali da pagare

Parlo dei governi di questo nostro Paese e, insieme, dei rappresentanti del mondo agricolo e dell’industria di trasformazione. 

Quest’ultimi, e non tutti, alla fine hanno scelto di proporre e firmare un accordo di filiera e dare all’olio l’appellativo “Italico”, non per far viaggiare l’olio italiano, ma un mix di olio italiano e olio importato e, così, mantenere più confuse che mai le idee dei consumatori, soprattutto quelli che si stanno avvicinando da poco all’olio, al suo uso, grazie alla fama di prodotto che unisce i piatti della cucina mediterranea e fa solo bene alla salute. 

Uniformare il prezzo al ribasso e, oltretutto, definirlo “italico”, vuol dire considerare l’olio come una delle tante commodity e non una peculiarità fortemente legata all’origine, il territorio, e ad altri importanti fattori.

Dare l’appellativo “Italico”, vuol dire, anche, azzerare di colpo quel ricco patrimonio di biodiversità olivicola, formatasi nel corso di secoli, se non millenni, unico al mondo con la sue 530 varietà di olivi autoctoni, che coprono, a parte l’Alto Adige, ogni angolo di questa nostra Italia. 

Il modo, questo, per mettere ancor più in crisi l’olivicoltura italiana e i suoi principali protagonisti, gli olivicoltori. 

La possibilità concreta di tagliare le ali all’olio extravergine di oliva italiano, proprio nel momento in cui ha tutto per volare più alto di sempre  e raggiungere, ovunque sta, quel consumatore esigente non solo di qualità, ma, anche e soprattutto, di diversità, che, sapendo l’importanza di questi valori, è disposto a pagare il giusto prezzo, quello che valorizza l’olio e il suo territorio d’origine, ripaga i sacrifici e gli impegni dell’olivicoltore. 

L’Italia ha bisogno dell’olivo. Ne hanno bisogno le sue colline, le sue aree interne per vivere la sostenibilità e rilanciare l’agricoltura e le altre attività ad esse collegate,e, per frenare l’abbandono. Ne hanno bisogno i coltivatori per  impostare di nuovo un’agricoltura contadina, quella che ha rispetto della Terra e la considera viva, sacra; dell’ambiente e del paesaggio; del tempo e delle stagioni e, soprattutto, di  dare continuità a un lavoro per niente facile da improvvisare che porta a produrre cibo. L’energia vitale.

L’Italia, in pratica, ha bisogno dei suoi oli, della sua agricoltura, per organizzare il suo domani, vivere i mercati, e, dai mercati ricevere quel valore aggiunto che serve a remunerare gli olivicoltori, che ne hanno bisogno per rimanere nelle aree sopracitate. E non solo, per suscitare, anche e soprattutto,l’interesse delle nuove generazioni che hanno bisogno, più del passato, di lavoro e giusta remunerazione, creatività, valori, un rapporto di reciprocità con la terra, soprattutto di rispetto.

Pasquale Di Lena – ideatore e promotore delle Città dell’Olio – Presidente onorario pasqualedilena@gmail.com

FONTE: TEATRO NATURALE