Autenticità: la chiave per uno sviluppo sostenibile legato al turismo

Il Punto  03 Ottobre 2018



«Un linguaggio diverso è una diversa visione della vita», diceva Federico Fellini. Bene. Proviamo allora a cambiare la parola «turista» con «viaggiatore», «tour» con «passeggiata», «pacchetto» con «esperienze autentiche». Incominciamo, cioè, a vedere il turista per quello che è, in molti casi: colui che si muove per guardare ciò che ha già visto nel depliant, per farsi un selfie e tornarsene subito a casa. In contrapposizione c’è il vero viaggiatore: chi parte con consapevolezza per conoscere e mettersi in discussione. Allo stesso modo, pensiamo alla distanza che può esserci tra un tour “mordi e fuggi” rispetto all’opportunità di vivere un territorio incontrando gli abitanti, i produttori agricoli, gli artigiani, assaporando lentamente un paesaggio costruito dal lavoro dell’uomo.

Cambiando linguaggio muta anche lo scenario e, improvvisamente, ogni certezza cade. Per questo la località isolata rispetto ai grandi flussi turistici, magari con un paesaggio rurale storico di grande pregio ma dimenticata dal turismo di massa, non deve sentirsi figlia di un Dio minore. Anzi: può diventare la scoperta di un numero ristretto di viaggiatori, ma adeguato ad uno sviluppo locale sostenibile. Occorre, dunque, iniziare a comunicare con visitatori di qualità, ma come? Una condizione è assumere una diversa consapevolezza delle peculiarità culturali e sociali che si sono stratificate nei secoli. La conservazione virtuosa di uno stile di vita è merce rara, se paragonata a luoghi turistici che sembrano, sempre più, delle San Marino senza anima o una vita sociale, con i residenti espulsi dal centro storico. Tuttavia, la percezione del proprio valore non sempre si raggiunge o si traduce in fatti concreti. Nonostante le buone intenzioni, si tenta di “richiamare gente” con iniziative più o meno originali, ma non sempre utili, concentrate in periodo di tempo limitato. La festa, la sagra, la rievocazione hanno una grande funzione di socializzazione e divertimento, ma sono pur sempre eventi artificiosi: attraggono tanti visitatori, ma con il rischio di snaturare l’essenza e gli equilibri di un territorio. L’evento, al contrario, dovrebbe amplificare una identità, in una logica di confronto e in una strategia ben definita. Più che puntare a una folla per pochi giorni o pochi minuti conviene valorizzare ciò che si è tutto l’anno, aprendo le porte dei frantoi, degli uliveti, dei musei, coinvolgendo contadini e artigiani, facendo conoscere i talenti e le abilità, le lavorazioni che si tramandano da generazioni. Chi non ha un prodotto, un piatto, un olio straordinario o qualcosa di particolare di cui va fiero? Ecco, questo patrimonio non va “svenduto”, tramutandolo in folklore, o promuovendolo attraverso abitudini consolidate, nonostante la loro scarsa efficacia.

La vita quotidiana di un piccolo paese può diventare un’offerta straordinaria, a costo zero, presente tutto l’anno. Basta agire con il giusto criterio, pensando che piccoli numeri presenti costantemente non alterano gli equilibri sociali e possono dare un livello di ricchezza adeguato, magari, anche a trattenere le giovani coppie di residenti. Dunque, la percezione di essere un Comune “non turistico”, vista con altri occhi (e quindi con altre parole) si trasforma da apparente handicap a vantaggio straordinario. Autenticità è la vera parola chiave, da coltivare con fermezza e raziocinio, senza assecondare una deleteria logica quantitativa. 

L’Associazione nazionale delle Città dell’Olio ha, in questo contesto, una grande occasione. Può funzionare da player per tante piccole realtà che da sole fanno fatica a rivolgersi a un pubblico selezionato, aiutandole a sviluppare esperienze vere e originali, inserendole in circuiti mirati attraverso canali di comunicazione e commercializzazione (senza escludere i tour-operator più sensibili ed evoluti). C’è una domanda sul mercato che chiede un’offerta, se consideriamo che la capacità di attrazione – per i viaggiatori – non si esaurisce nell’albergo di un lusso omologato, o nei “non luoghi” alla Disneyland. Al contrario, sono più numerosi di quanto si creda coloro che intendono incontrare il giovane che continua una tradizione agricola di famiglia, in un sistema sociale e produttivo che genera prodotti, feste, paesaggi, legati alle stagioni e ad antichi riti, rendendo ogni luogo speciale: proprio perché autentico. Si possono far condividere le passioni dei residenti con ospiti rispettosi e curiosi. Occorre, certo, evitare un “turismo dell’olio” concepito come una somma di pacchetti e proposte ripetitive, destinate a un pubblico indifferenziato. Serve, invece, un metodo utile a esaltare le infinite peculiarità locali, a personalizzare l’offerta sulle esigenze di ogni viaggiatore. Un appassionato olivicoltore, un museo, una pianta secolare, una particolare cultivar, sono aspetti unici in ogni località: per questo hanno bisogno di una narrazione specifica che li esalti, non della trasformazione in “merce” da consumare superficialmente. Le “città dell’olio” hanno la necessità di abbandonare il concetto di turismo, per dedicarsi ai veri viaggiatori.

Simone Marrucci – operatore del turismo e della comunicazione