L’abbandono culturale e politico del settore primario, l’Agricoltura

Il Punto  16 Settembre 2020



Dal blog di Pasquale Di Lena, ideatore e promotore delle Città dell’Olio

Una considerevole parte delle imprese agricole italiane, in particolar modo quelle del Meridione, sta attraversando, e questo da ben venti anni, un momento di grande difficoltà, di smarrimento ed incertezza, dovuto ad uno stravolgimento epocale neoliberista-globalizzato dello scenario socio-politico-economico.
Una situazione impensabile anche per i conoscitori navigati della realtà imprenditoriale agricola nazionale.
 
I motivi di questa sofferenza? La stagnazione dei prezzi delle derrate agricole con prezzi fermi ai fine anni ’80 del secolo scorso, gli aumenti smisurati dei costi di produzione (trattrici, attrezzature, concimi, fitofarmaci, etc); concorrenza sleale dei Paesi UE ed Extra UE; difficoltà competitiva nella collocazione dei prodotti agricoli; ma soprattutto mancanza o incapacità istituzionale della difesa del settore da parte di chi dovrebbe difenderlo. 
Questo vale per il pomodoro da industria, il grano duro, il settore lattiero-caseario, quello ortofrutticolo, il zootecnico, etc.
 
Un dato incontrovertibile che bisogna ribadire: l’Agricoltura nazionale è stata sempre merce di scambio, barattata per favorire altri settori strategici (?) come quello dell’auto, o quelle delle imprese costruttrici di opere pubbliche in Paesi africani o asiatici.
 
Qualche sapientone “luminare nostrano” ha dichiarato che in un futuro più o meno prossimo l’imprenditoria agricola nazionale dovrà essere vista ed impostata come secondo lavoro.
Quanto su appena scritto porta a fare una serie di domande: Cosa fare a questo punto? Quali prospettive avranno le attuali aziende agricole? Spariranno? Cosa ne sarà di questi giovani “primi insediati”?
 
I “tanti soloni”, centinaia di esperti nazionali e regionali che da anni si spremono le meningi con incontri, vertici, summit, riempendo migliaia e migliaia di pagine per far ripartire il settore, per programmare il futuro agricolo, gli stessi politici lungimiranti che hanno governato in tutti questi anni e che dovevano dare risposte, dovevano farsi carico dei relativi percorsi programmatici da intraprendere, cosa hanno fatto in concreto ? Letteralmente nulla, solo chiacchiere visto che, a loro dire,  e buon per “loro”, poi, i rassegnati, gli “inascoltati agricoli”, ascoltano, parlano  ma poi alla fine non si lamentano mai. 
Questo non è più concepibile! 
Queste problematiche non potevano e non possono essere lasciate alle incombenze dei soli imprenditori agricoli!
 
E’ bene chiarire e da tener presente che questa Via Crucis agricola è iniziata dal lontano 2000. 
In questi venti anni, lo si ripete, nonostante le tante professionalità istituzionali succedutesi sia a livello europeo, nazionale e regionale, il quadro che ne viene fuori è desolante. Programmazioni illogiche, senza costrutto. Ed allora?
 
Dobbiamo ricordare i vari accordi commerciali, di ieri, del Green Corridor o, di oggi, come il trattato di liberalizzazione commerciale Europa- Usa del TTIP ( Transatlantic Trade and Investment Partnership, trad: Partenariato Transatlantico per il Commercio e gli Investimenti) o l’accordo commerciale UE- Canada il CETA (Comprehensive Economic and Trade Agreement, letteralmente “Accordo economico e commerciale globale”), accordi a perdere per il settore nazionale?
È ora di smetterla e sentir sempre dire la solita solfa, che la colpa nell’affrontare la crisi è dovuta alla mancanza imprenditoriale dell’agricoltore! Individuare, intercettare il mercato, ma cosa?
 
Ma se non hanno consapevolezza manco quelli che ci hanno rappresentato e ci rappresentano in Europa, quelli che dovrebbero dare indirizzi e tutelare così gli interessi nazionali e la sovranità alimentare della nazione!
Invece, se la realtà è questa, si può affermare con certezza che ci sono solo tanti “cavallini di Troia” nostrani sottomessi alla politica di altre nazioni, alle lobby e alle multinazionali dell’agribusiness di turno.
L’agricoltura nazionale non è altro che la vittima sacrificale delle politiche europee interessate ad affossarla e di quella nazionale e regionale poco attente a sostenerla. 
Di fronte a questo cambiamento così radicale, stravolgente ed inaspettato, si chiede: Di cosa dobbiamo parlare o approfondire ancora? Quale la strategia politica? Non c’è e non c’è  mai stata se questi poi sono i risultati.
Dal mondo agricolo, quello che lavora sotto il sole o la pioggia, col caldo o col freddo e vive di solo reddito agricolo, di quello che può dare la terra, traspare una visione tetra: gli agricoltori o meglio i contadini e le loro famiglie sono diventati gli schiavi, gli usati e mortificati, i figliastri di un dio minore, quelli che mentre per lo Stato sono proprietari di aziende agricole, i ricchi, nella realtà, la stragrande maggioranza è povera in canna e rasenta la miseria. Per chi non la conoscesse e di “sazi” ce sono, dalla Treccani: stato di estrema povertà, mancanza di ciò che è fondamentalmente necessario per vivere, cui conseguono avvilimento spirituale, infelicità e sensi di desolazione. Basterebbe solo chiedere alla Caritàs regionale e ai sacerdoti delle varie Diocesi il dramma contadino e farsi dire chi bussa alla loro porta. 
La nostra strategia di sviluppo aziendale è inesistente nonostante il nostro Paese sia deficitario per il 35% di grano duro, del 65% di grano tenero, del 75% di zucchero, del 50% di mais e soia, del 47% di carne bovina, del 25% di latte, del 40% di olio d’oliva. Non sappiamo se produrre grano duro, olio d’oliva, pomodoro visto che poi, “quelli“ che  adoperano la materia prima, trasformandola, sempre più si approviggionano di prodotto estero a prezzi irrisori e che grazie a leggi compiacenti la etichettano poi come made in Italy. Ecco il motivo perché centinaia e centinaia di migliaia di ettari di terreni rimangono non coltivati! 
Con questa logica politico-industriale poi hanno pure la capacità di esportare e parlare di competitività. 
 
Non poco tempo fa su un articolo di giornale on line  Fresh Plaza, un industriale del ramo puntualizzava che, ad es. per il pomodoro da industria”… Il punto critico è come rimanere concorrenziali: per cui spesso siamo costretti a pagare il meno possibile la materia prima, per essere competitivi nel mondo”. Non ci sono parole, c’è da restare davvero basiti. 
Viene sottaciuto che le vendite sottocosto, le promozioni che fa la Gdo vengono sempre e solo scaricate sulle spalle degli agricoltori. Sono anni che decide il bello o il cattivo tempo comprando le derrate a prezzi stracciati che spesso e volentieri non coprono neanche i costi per produrle. 
È questo che non sta bene. Sono pratiche sleali. E che fa la politica nostrana? Nulla. Ma è questa la politica del futuro che le alte sfere sognano?
 
Non è così che si possono valorizzare le specificità di un territorio, la sua biodiversità, la sua sostenibilità ambientale, sociale e culturale! 
Bisogna fare in modo che tutti, uniti (politica, imprenditoria agricola, agro industria, turismo), diventino protagonisti  delle decisioni da prendere vedendo quali sono i punti di forza e di debolezza e le strategie da intraprendere, utili al suo sviluppo. 
Questa è la strada da percorrere; altro è, visti i risultati finora raggiunti, il nulla. 
E il Molise con la questione devastante e senza fine dei consorzi di bonifica, la mancata valorizzazione dei prodotti autoctoni e dei contratti di filiera e del bellissimo territorio ne è l’esempio calzante.
 
Due ultime considerazioni. 
La prima. 
Il coltivatore diretto non può essere assimilato a tutti gli altri imprenditori dei vari settori; è colui che tutela l’ambiente, è la sentinella del territorio, quello che salvaguarda la natura senza percepire alcunché. E questo dovrebbe essere tenuto in seria considerazione ed invece… 
 
La seconda. 
Il coltivatore diretto non potrà mai essere un imprenditore fino a quando non sarà lui a decidere il prezzo delle sue derrate come avviene in qualsiasi altro settore. Subisce quando si tratta di acquistare, subisce quando vende i suoi deperibili prodotti: è sempre incudine e mai martello. E questo stillicidio non lo si può più accettare. 
Bisogna fare in modo che questa condizione d’incertezza nella quale si trova ad operare sia rivista; caso contrario è la fine.
E se muore Sansone (il contadino) , moriranno anche i Filistei (le sanguisughe). Sarà solo, poi, questione di tempo. 
                   
Articolo di Giorgio Scarlato del Comitato spontaneo agricolo  “Uniti per non morire”