Il tempo passa, la passione per la propria terra resta

Il Punto  01 Gennaio 2020



Il tempo, con il passar del tempo, scarta tutto ciò che per te non ha più significato. L’ha avuto per un attimo o anche per più o meno tempo, ma poi è passato e nulla è rimasto. Neanche nella memoria che, quale contenitore limitato, ha bisogno di liberare spazio da ciò che non serve più se vuol far posto a nuovi interessi, nuove passioni.

Ho trovato, non me la ricordavo, una foto piccola di me ancora bambino, con mia sorella dentro il suo cappotto che sembrava fatto di piume di qualche uccello strano e con il fazzoletto in testa come una donna già matura, mia zia Linda, che delle zie è sempre stata la più alta, la più grande, quella che, in quel tempo, ci ha più coccolati. Avevo i pantaloni alla zuave, un maglioncino, non più nero per il lutto di mio padre, ma comunque scuro,  e una sciarpa che mi copriva il collo, scendeva sul petto e dietro le spalle.

Ero un bambino elegante che aveva un sorriso scanzonato come a dire “lo sarò  elegante ancora per un momento, il tempo di scattare questa foto, prima di tornare ai miei giochi che hanno bisogno di forza più che di eleganza, di astuzia per vincere e battere compagni vestiti come te”.   

Eleganti? Io e i miei compagni di quel tempo non lo siamo stati mai! Non volevamo essere limitati nei giochi e nei nostri movimenti, nelle corse e nelle rincorse e, soprattutto, non volevamo rischiare di non riconoscersi  e sembrare altri. Quelli, i fortunati,  che non sapevano cosa fosse il morso della fame, mangiavano il “filone” fresco di giornata e non il pane raffermo, ma gli sfortunati che si vestivano con i vestiti rigirati dei più grandi; sentivano  la paura di tutte le volte che non c’era lavoro e la vergogna di andare in un negozio non con i soldi, ma con il libretto che raccoglieva un debito da onorare.

Alcuni  di quei compagni di gioco, già alla fine degli anni ’40, sparivano da un giorno all’altro. Non li rivedevi più, né a scuola e nel loro banco, né nei luoghi d’incontro e di gioco o a rischiare l’osso del collo scendendo all’impazzata la strada selciata che  aveva scalette. 

Partivano tutti di mattina, ancora con il buio, per Paesi lontani, come l’Australia e le Americhe, o, più vicini, ma pur sempre lontani, come il Belgio, la Germania, la Francia, la Svizzera, i Paesi dell’Europa che avevano bisogno di braccia per riparare ai disastri provocati da una delle più tristi stupidità dell’uomo, la guerra, e dare spazio a un Paese diverso, con nuove fabbriche e nuovi cantieri. 

Doveva ancora iniziare lo sviluppo di quella vasta area industriale che riguarderà un triangolo del Nord Italia, con il Piemonte. la Lombardia e la Liguria, Torino, Milano e Genova, le città di maggiore attrazione delle braccia disoccupate del Sud, per colpa del regime fascista che aveva azzerato lo sviluppo possibile del sud,  l’agroalimentare. 

Partivano in silenzio come per vergogna nei confronti della loro terra, dei loro amici e dei loro cari che restavano. 

Non annunciavano la loro partenza, forse per  non raccontare la paura che era, dal giorno della decisione,  già diventata dolore o per non farsi vedere piangere. Ho sempre pensato a una specie di scaramanzia il non raccontarlo a nessuno, come mantenere viva la speranza che sarebbero tornati presto, una volta accumulati le risorse necessarie per farsi una casa e comprare un pezzo di terra più grande;  mettere su una bottega più moderna o aprire un negozio più bello. 

La verità è che la gran parte di questi amici non sono più tornati, se non dopo anni, dalle Americhe e dall’Australia, ma solo per  riabbracciare i propri cari, già anziani, mentre dal Nord Italia e dal Nord Europa c’era la possibilità di rivederli almeno una volta l’anno, ad agosto quando chiudevano le fabbriche.  

Neanche quelli che sono partiti per Roma sono più tornati, anche se si potevano considerare fortunati visto che avevano la possibilità di fare più di una scappata, comunque nei giorni dei santi e dei morti, a Natale o nei mesi caldi  d’estate.

Molti di questi miei compagni d’infanzia, a partire dai miei cugini, li ho incontrati nei miei viaggi in giro per il mondo, nei circoli o nelle loro case, e avere così la possibilità di riascoltare il dialetto che noi avevamo già mutato, soprattutto con la diffusione della televisione in ogni casa, in un dialetto italianizzato. Il loro dialetto era  rimasto puro, datato dal giorno della partenza. L’unica aggiunta era quella delle parole nuove, quasi tutte pronunciate con inflessione dialettale, che richiamavano la lingua del Paese incontrato.

Perfetta la cucina che riproponeva i piatti della casa abbandonata e che avevano ereditato dalle loro mamme e dalle loro nonne: pane, pizze, pasta fatta in casa con un ragù, non più finto, ma ricco, non solo di polpette (cac’e ove), anche di braciole ripiene di un uovo che, con la cottura, diventava sodo.  Per le verdure c’erano, agli inizi, problemi di varietà e di qualità, nel tempo risolti con la scelta della casa singola e non dell’appartamento, tutto per la possibilità di avere un pezzetto di terra da coltivare. 

Impeccabile il rispetto delle tradizioni, in particolare il rito legato alla nascita; al matrimonio; quello legato alla morte, tant’è che i cimiteri di pezzi di marmo,  sparsi sul terreno nei luoghi più impensati in America, anche nel centro delle città, si sono arricchite di cappelle e di loculi, come qui nei nostri camposanti .  E, per non dimenticare, il rito legato al saluto, quello  al parente o paesano che arrivava e il regalo (u penziere) al momento della ripartenza. La gentilezza, come si diceva un tempo, non è mai troppa (maie sevierchie).

Tutti, o la stragrande maggioranza, presi dalla nostalgia e dalla consapevolezza di non poter più tornare, hanno vissuto un momento di risentimento nei confronti della loro terra natia, ma poi è tornato il filo della passione a ricucire lo strappo e a legare i figli e i nipoti a una terra che non hanno mai visto ma che hanno imparato a conoscere attraverso il racconto, le usanze, lo stesso dialetto, la ritualità.

Il tempo passa la passione per la propria terra resta e, nella gran parte dei casi, si trasmette anche in chi l’ha sentita e l’ha saputo coltivare.

Pasquale Di Lena